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Writer's picturePaolo Grandi

Le “Terme di Elagabalo”

Updated: Feb 28, 2021

Da un saggio di Clementina Panella, direttrice dello scavo, con la collaborazione di Lucia Saguì, coordinatrice dal 2007 al 2013 delle ricerche sul campo nell’Area IV dove si trovano le “Terme di Elagabalo


Il ritrovamento dei frammenti marmorei si inserisce all’interno delle scoperte avvenute nello straordinario palinsesto monumentale e storico romano tra la piazza del Colosseo e il Palatino. E di palinsesto si tratta nella misura in cui quel ‘paesaggio’, dominato da secoli dalla mole dell’Anfiteatro, è il risultato di infiniti interventi edilizi succedutisi nel tempo e riflette solo il momento in cui (dal IV secolo) tutti i monumenti che ne fanno parte (Colosseo, Arco di Costantino, Meta sutans, Tempio di Venere e Roma, Tempio di Elagabalo, Arco di Tito) hanno convissuto.


Le c.d. “Terme di Elagabalo”, volute dal giovane ed eccentrico principe occupano un intero isolato ma hanno avuto vicende stratigrafiche che affondano le loro radici ben prima dell’arrivo dei Severi. Già sul finire del V secolo a.C. si definisce la vocazione residenziale dell’area, che accoglie una domus aristocratica e poi via via isolati abitativi che occupano sino all’età giulio-claudia tutta la pendice della collina sino all’Arco di Tito, per avere termine nel 64 con il famoso incendio neroniano, che distrugge gran parte del Palatino. Il grandioso progetto urbanistico della reggia di Nerone (la Domus Aurea) lascia in quest’area solo traccia delle fondazioni dei Portici allestiti lungo la via diretta dalla valle del futuro Colosseo al Foro, e i resti di una strada che dalla via porticata si dirige verso il Circo Massimo. Entrambi gli assi stradali, insieme alle sostruzioni adrianee (117-138) della terrazza della Vigna Barberini, costituiranno i limiti di un nuovo isolato occupato in prima battuta, con qualche probabilità, da un grande magazzino (horreum) o da un ‘centro commerciale’, contestuale al grande progetto (giardino con esedra) realizzato a partire dal 123 sul pianoro di Vigna Barberini. In seguito, forse a causa di un altro incendio (del 191/192), questa costruzione fu interamente abbattuta e sostituita dall’edificio con cortile di età severiana.

L’edificio con cortile in laterizio, la cui planimetria è ancor oggi ben leggibile, sostituisce l’horreum di età adrianea, demolito per far posto alla nuova costruzione. A tal fine si rade al suolo anche il Portico di età neroniana della via diretta dalla valle al Foro, ancora in piedi in questa età. La nuova costruzione occupa l’intero isolato, ha la forma di una C ed è costituita da una serie di ambienti disposti su due piani intorno a un lungo cortile dotato al centro di una vasca rivestita di cocciopesto. Il complesso è delimitato su tre lati da strade (una è l’attuale via Sacra), mentre il quarto lato sfrutta invece il muraglione sostruttivo della terrazza della Vigna Barberini, ove era in costruzione un Tempio che Elagabalo dedicherà qualche anno dopo al dio di Emesa (Sol Helagabalus), possente struttura completamente asportata in età postantica. I 15 pilastri collegati da arcate, addossati a questo muro, animavano scenograficamente questo lato del cortile. Sul lato opposto vi sono due file di vani di uguali dimensioni separati da un unico muro maestro, che si aprono rispettivamente sulla via pubblica e sul cortile. La geometria dell’insieme si interrompe alle due estremità dell’isolato, dove due stanze molto più grandi coperte da una volta a crociera occupano per intero gli angoli e devono aver avuto una funzione diversa (uffici, archivi?) da quella di botteghe (tabernae) o negozi o officine, che potrebbe essere invece la destinazione d’uso dei vani sul fronte strada. Per l’insieme raccolto nel cortile si è pensato a un magazzino (horreum) in continuità con quello che lo aveva preceduto, benché una corte circondata da vani rimandi a una tipologia edilizia diffusa e comune ad altri edifici (case di abitazione, scholae, cioè sedi di collegio o di corporazione…?). All’interno del contesto è da considerare anche la scenografia suggerita dai pilastri ad arcate addossati al terrazzamento del pianoro, i quali animano il cortile con 15 profonde nicchie. Anche i due portichetti immaginati sui lati brevi del corpo edilizio danno a questi spazi, nonostante lo stato in cui sono oggi ridotti, qualità e pregio architettonico.

Dopo la morte di Elagabalo, nei primi decenni del IV secolo, una parte dell’edificio severiano fu profondamente modificato: i vani più vicini all’Arco di Tito sono occupati da una piccola terma. Alla zona riservata ai canonici ambienti termali (caldarium, tepidarium, frigidarium) si affiancano tre ambienti disposti a croce intorno a una vasca quadrangolare, ricavati anch’essi in parte nelle murature preesistenti. Il vano di fondo è costituito da una grande esedra semicircolare dotata di una mensa a forma di C in muratura (stibadium), che consentiva ai commensali di godere durante i pasti della vista degli spazi antistanti. Nei due ambienti che la fiancheggiano dovevano essere invece disposti letti mobili. Si tratta di una sala trichora per banchetti (cenatio) aperta sul cortile con una trifora con due colonne in cipollino. Al momento della cena, l’acqua doveva riempire la vasca e il semicerchio intorno allo stibadium, dando agli ospiti l’impressione di essere al centro di un lago. Il cortile, pavimentato con grosse tessere di mosaico bianco, diventa ora una zona di passeggio con un portico e con vasche, fontane, aiuole. Un altro piccolo ninfeo semicircolare chiude scenograficamente questo spazio aperto.

Enigmatico, infine, è un dispositivo costituito da una scala realizzata nel cortile che, perforando il sottosuolo, raggiunge un pozzo di età arcaica o repubblicana la cui imboccatura affiora nella vasca, in asse con lo stibadium (conserva di neve per i cibi e le bevande consumate nel corso dei banchetti?). Non è chiara la destinazione di questo straordinario insieme architettonico, che si conserverà sino in epoca avanzata, pur con importanti modifiche che non altereranno sostanzialmente il suo sontuoso apparato.

Dell’ultima fase edilizia sono stati rinvenuti, utilizzati come inerti nella malta, alcuni frammenti marmorei di grandissima qualità, secondo un costume già registrato in tanti altri punti della Città, immagini di imperatori (Settimio Severo), imperatrici (parrucche del tipo indossato dalla moglie di Settimio, Giulia Domna) e di privati e private, spettanti certamente a personaggi di corte. Inoltre, dalle fondazioni provengono una decina di busti acefali databili in età severiana, che presuppongono altrettanti ritratti, alcuni dei quali potrebbero raffigurare imperatori. Non mancano pezzi più antichi, tra i quali spicca per qualità una statuetta di Mercurio. La coincidenza che queste sculture appartengano in buona parte alla stessa età dell’edificio severiano da cui provengono crea un altro corto circuito. Se da un lato è possibile che questo insieme (tutto o in parte) decorasse l’edificio con cortile e fosse rimasto in uso anche nella sua fase tardoantica, per finire riciclato nelle fondazioni dell’ultima e più tarda fase edilizia di età antica registrata nell’area, non possiamo tuttavia escludere che questa concordanza di elementi sia casuale e che il “mucchio di marmi” sia arrivato (ma con un’oculata scelta di busti e ritratti degli inizi del III secolo!) da altre zone del Palatino.

Cronologicamente solidali con questa più tarda costruzione potrebbero essere sette tombe, molto povere, analoghe a tante altre rinvenute ovunque sul Palatino e a Roma tra V, VI e VII secolo, che confermano la presenza di una zona del disabitato e la commistione tra città dei vivi e città dei morti nell’area centrale della Città antica nei tre secoli più difficili della sua storia.



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